jueves, 18 de julio de 2013

Cercasi lavoro al sud

Primi di giugno, Conil de la Frontera                      



“La disoccupazione giovanile in Spagna è arrivata al 56%”
Così mi assicurano le persone che conosco durante questi giorni riguardo alla possibilità di trovare un lavoretto qui nel territorio iberico.
“E la provincia di Cadiz registra la percentuale più elevata”
Ho deciso di farmi la costa da Cadiz a Gibilterra, lasciando CV a chiringuitos, bar, ostelli… Qualsiasi cosa mi fornisca una stabilità stagionale.
Molti si mettono a ridere quando gli chiedo meccanicamente: ‘Salve, non è che per caso posso lasciare il CV, in caso remoto di un lavoro?’
“Non abbiamo lavoro neanche noi”, fanno molti, o “La stagione è bassa”, o “Guarda la pila di curriculum”. Uno gentilmente mi fa notare che con i curriculum si diverte a fare aeroplanini di carta.
La figura del cercatore di lavoro è classicamente una persona mediamente ben vestita, con una cartellina stile ufficio che raccoglie i vari CV fotocopiati in quantità ridicolamente alte, accompagnati da un mezzo di trasporto, quali motorino o auto, e dal loro fondamentale Blackberry.
In questo un po’ distruggo l’idea del cercatore di lavoro.
Perennemente con i jeans che mi calano dal poco mangiare e con lo zainetto contenente Yashica, curriculum e baguette, eccomi camminare infiniti kilometri per raggiungere mete di speranze vane.
Così fu l’esperienza a Chiclana, 10 km di lungomare curricolati in un giorno.
Per non parlare qui di Conil.
Perlomeno ogni mattina che esco per partire di nuovo verso nuovi lungomari, mi metto nella carretera agitando il pollice all’aria, sapendo che, presto o tardi, qualche veicolo a quattro ruote si fermerà a raccattarmi.
E così mi feci El Palmar e Caños de Meca, dove ebbi l’opportunità di suonare varie canzoni al ristorante in cambio di una paella e di una birra.
Ma il bucio di culo (inteso come fatica, cari romani) giornaliero è immane. Molti datori di lavoro mi avranno visto come un profeta uscito dalle dune, disidratato e con pochi viveri. E così era in fondo.
Nell’oretta in cui tutti i negozi erano chiusi, mi ritrovai in una spiaggia nudista e, stanco morto, mi sdradai sui miei jeans+maglietta come asciugamano, addormentandomi all’istante col culo nudo che salutava il sole.
Grande errore, perché per i giorni che sono seguiti, non potei fare a meno di ignorare il dolore della scottatura intima, una sorta di calcio in culo perenne.
Domani credo di andarmene di nuovo, o verso Tarifa o verso Gibilterra, vedremo un po’. Qui le soluzioni si sono esaurite, anche se la mia opportunità l’ho avuta.
Giusto qui a Conil un ristorante italiano cercava un cuoco per gestire il ristorante. Fui a parlare col capo Michele e con la sua figlia buzzicona, e mi sembrava di stare in famiglia. Il pizzaiolo Michele era un terrone molto simpatico, un ibrido tra mio padre e Pasquale. Mi racconta la sua vita e io la mia, e ci troviamo presto ad agio. Rimango là un paio d’orette, vedendolo lavorare e valutando l’offerta che mi aveva proposto.
‘Io ti ci farei pure provà a sta’ in cucina’, mi fa, ‘ma se non c’hai mai avuto a che fa, te sarà impossibile gestì tutto il ristorante’.
C’aveva ragione e, con un sorriso, rifiutai di fare la prova lasciando il rimorso sulla porta.

E così, tra un mate e un piatto di pasta se ne vanno le giornate.
Aspettando il momento
e vivendo l’attesa

lunes, 8 de julio de 2013

Cammino verso l'Atlantico


Cadiz, primi di giugno

Finalmente l’oceano, il tanto desiderato oceano.
Poche settimane fa salutavo l’Europa col sole che nasceva: lo stesso sole che ora invece muore guardando l’America (perché ce n’è una sola di America, si sa).
Faticosa la strada da Sevilla, cinque ore sotto al sole a 35 gradi aspettando qualche buon’anima che mi portasse a porto offrendomi, eventualmente, un sorso d’acqua. Il desvio dell’autostrada non era poi il miglior luogo per aspettare qualche spirito prescelto e, vista la sfiducia insita nella persone di una grande città, il calvario per uscirne fu duro e sudato. Qualche stronzo mi mandò gratuitamente a fanculo, mentre altri ridevano strillando: ‘Tanto non ti prenderanno mai!’.
Stavo per demordere quando un signore si ferma offrendomi uno strappo sulla nazionale, e da lì, tutto a gonfie vele. Mi prende poi un giovine che si preparava per il suo lungo viaggio in Birmania, appoggiando il progetto di varie ONG. Incantato mi parla di Bruxelles e delle infinite possibilità che offre, togliendomi almeno per questa volta l’obbligo di narrare le mie avventure.
Passo Jerez e mi piange il cuore, patria de Los Delinquentes e del flamenco più callejero e gitano del mondo.
Ma non ho tempo, alla prossima…

Finalmente l’oceano, il tanto desiderato oceano.
Lo contemplo solo, mentre i miei vicini di tenda iniziano una pesante lite contro un gruppo di ragazzi bevendo nella spiaggia.
‘Andate a fare baldoria da qualche altra parte’, strilla furente la voce della tenda. ‘Sennò tiro fuori il coltello, stronzi’.
Mi dissero in seguito che il locale residente della spiaggia la Caleta di Cadiz era un artigiano che da ormai vari anni si era insediato a vivere con la sua consorte sotto i pilastri dell’unico edificio della playa.
E io questa notte condividevo il suo territorio, con le onde come culla e la luna come madre che docilmente la scuote.
Nemmeno 24 ore in Cadiz e già gli eventi rimbombavano nella testa come palline in un flipper. La maggior parte delle storie si erano create nella ricerca di una casa. Questa volta Couchsurfing aveva fallito, e non mi rimaneva altro che ricevere info dai senzatetto locali. Provai a chiedere ospitalità in una casa okupa, ma la forte organizzazione comunisto-fascista insita nella liberalità delle loro idee era contraria all'aiuto verso il prossimo, senza alcuna eccezione.
E così, non so come, riuscì a imbucarmi in un ostello, dove un simpatico quanto bizzarro ungaro mi aveva fatto d’anfitrione, invitandomi nella terrazza ad una splendida cena fatta di cibo riciclato.
Questi mi narra della sua vita, un'esistenza da viaggiatore ora stabilizzato. Si era fatto camminando da Oporto a Cadiz, durante quasi 6 mesi, dormendo dove capitava e improvvisando ogni secondo. Mi fa vedere il suo quaderno pieno di scritti, disegni e cartacce varie: una vera opera d’arte.
Ora stava sfruttando l’opportunità di lavorare e vivere nell’ostello per soddisfare con calma le sue varie inclinazioni artistiche, allontanato da quella società così ostile che richiedeva denaro per sopravvivere.
Sulla terrazza, infine, c’era tutto il mondo, come spesso succede negli ostelli, ma la buena onda non aleggiava nell’aria, visto che la maggior parte parlava inglese e ciò mi urtava profondamente i nervi.
Di tutta la gente dell’ostello, in realtà, giusto una inglese e una bulgara si erano rivelate supersimpatiche, forse proprio perché parlavano spagnolo. La prima comincia a offrirmi il mondo. ‘Dai, andiamo a mangiare un paio di tapas’, mi fa. Non avevo mangiato praticamente niente per tutto il giorno visto che il portafoglio risuonava a rame e zinkel, lasciandomi così fortemente incline alla gustosa offerta.
E lì una birra, due, tre, concertito flamenco, quattro, cinque, discoteca da turisti e già si fanno le quattro. ‘Prima che salga la luce del sole voglio montarmi la tenda’, dico, avviandomi così felice per le viette della splendida Cadiz, direzione Caleta.
E lì a salutare il mare, di nuovo...

Finalmente l’oceano, il tanto desiderato oceano.