Cadiz, primi di giugno
Finalmente l’oceano, il tanto desiderato
oceano.
Poche settimane fa salutavo l’Europa
col sole che nasceva: lo stesso sole che ora invece muore guardando l’America (perché ce n’è una
sola di America, si sa).
Faticosa la strada da Sevilla, cinque ore
sotto al sole a 35 gradi aspettando qualche buon’anima che mi portasse a porto offrendomi, eventualmente, un sorso d’acqua. Il desvio dell’autostrada non era poi il
miglior luogo per aspettare qualche spirito prescelto e, vista la sfiducia
insita nella persone di una grande città, il calvario per uscirne fu duro e
sudato. Qualche stronzo mi mandò gratuitamente a fanculo, mentre altri ridevano
strillando: ‘Tanto non ti prenderanno mai!’.
Stavo per demordere quando un signore si ferma offrendomi uno strappo sulla nazionale, e da lì, tutto a gonfie vele. Mi prende poi un giovine
che si preparava per il suo lungo viaggio in Birmania, appoggiando il progetto
di varie ONG. Incantato mi parla di Bruxelles e delle infinite possibilità che offre,
togliendomi almeno per questa volta l’obbligo di narrare le mie avventure.
Passo Jerez e mi piange il cuore, patria
de Los Delinquentes e del flamenco più callejero
e gitano del mondo.
Ma non ho tempo, alla prossima…
Finalmente l’oceano, il tanto desiderato oceano.
Lo contemplo solo, mentre i miei vicini di
tenda iniziano una pesante lite contro un gruppo di ragazzi bevendo nella
spiaggia.
‘Andate a fare baldoria da qualche altra
parte’, strilla furente la voce della tenda. ‘Sennò tiro fuori il coltello,
stronzi’.
Mi dissero in seguito che il locale
residente della spiaggia la Caleta di Cadiz era un artigiano che da ormai vari anni si era insediato a vivere con la sua
consorte sotto i pilastri dell’unico edificio della playa.
E io questa notte condividevo il suo
territorio, con le onde come culla e la luna come madre che docilmente la
scuote.
Nemmeno 24 ore in Cadiz e già gli eventi
rimbombavano nella testa come palline in un flipper. La maggior parte delle storie si erano create nella ricerca di una casa. Questa volta Couchsurfing aveva fallito, e non mi rimaneva altro che ricevere info dai senzatetto locali. Provai a chiedere ospitalità in una casa okupa, ma la forte organizzazione comunisto-fascista insita nella liberalità delle loro idee era contraria all'aiuto verso il prossimo, senza alcuna eccezione.
E così, non so come, riuscì a imbucarmi in un ostello, dove un simpatico quanto bizzarro ungaro mi
aveva fatto d’anfitrione, invitandomi nella terrazza ad una splendida
cena fatta di cibo riciclato.
Questi mi narra della sua vita, un'esistenza da viaggiatore ora stabilizzato. Si era fatto camminando da Oporto a Cadiz, durante
quasi 6 mesi, dormendo dove capitava e improvvisando ogni secondo. Mi fa vedere
il suo quaderno pieno di scritti, disegni e cartacce varie: una vera opera
d’arte.
Ora stava sfruttando l’opportunità di
lavorare e vivere nell’ostello per soddisfare con calma le sue varie inclinazioni
artistiche, allontanato da quella società così ostile che richiedeva denaro per
sopravvivere.
Sulla terrazza, infine, c’era tutto il
mondo, come spesso succede negli ostelli, ma la buena onda non aleggiava nell’aria, visto che la maggior parte parlava
inglese e ciò mi urtava profondamente i nervi.
Di tutta la gente dell’ostello, in realtà,
giusto una inglese e una bulgara si erano rivelate supersimpatiche, forse
proprio perché parlavano spagnolo. La prima comincia a offrirmi il mondo. ‘Dai,
andiamo a mangiare un paio di tapas’,
mi fa. Non avevo mangiato praticamente niente per tutto il giorno visto che il
portafoglio risuonava a rame e zinkel, lasciandomi così fortemente incline alla gustosa offerta.
E lì una birra, due, tre, concertito
flamenco, quattro, cinque, discoteca da turisti e già si fanno le quattro. ‘Prima
che salga la luce del sole voglio montarmi la tenda’, dico, avviandomi così
felice per le viette della splendida Cadiz, direzione Caleta.
E lì a salutare il mare, di nuovo...
Finalmente l’oceano, il tanto desiderato
oceano.

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