lunes, 13 de enero de 2014

Sei semplici passi da seguire per occupare una casa abbandonata

 
- Gente di okupa -


L'Hospitalet de Llobregat, Barcelona
Ultimi giorni di luglio



parte i conflitti interni e le ridicole risoluzioni future, la vita all’interno della Casa Okupa ‘anonima’ (erano passati quattro mesi e ancora non esisteva un nome per mancanza di un comune accordo) andava avanti dolce e leggera, chi danzando ritmi egizi, chi cucinando ricche pietanze riciclate e chi rollando l’ennesima canna. Si passano bei momenti con la buona gente che vive e passa per la fabbrica abbandonata, fornita di poche regole e tanta buona volontà.
 Si chiedono 7 euro la settimana per contribuire ai costi del pranzo e della cena, pasti “volontariamente” cucinati dal buon senso di ogni inquilino. Dei tre frigoriferi uno si riserva per i cibi privati, mentre gli altri sono interamente comuni, permettendo così ai meno abbienti di godere dei bendidio scartati dalla società, trovati nei cassonetti o gentilmente offerti da una frutteria che comunque li avrebbe buttati.
‘Riciclo’ è una parola fondamentale nell’etica Okupa, imperniata sulla filosofia dopoguerresca del nun se butta vie gniente. E così la cucina aveva ora una forma, le abitazioni (tranne la mia) rispecchiavano la visione capitalistica di camera da letto e il salone aveva tavoli, sedie e divani come qualsiasi salone da copertina Ikea. Tutto con gli scarti della gente che lavora.
E già, perché una buona maggioranza dei miei nuovi coinquilini non lavora nella maniera propriamente detta. Qualcuno si arrangia con i birilli, qualche altro con le percussioni e qualcuno prova con molta maestria e pochi alunni a impartire lezioni di danza. Altri invece, con la scusa del Ramadan, dormono il giorno e si sfondano di cibo e canne la notte.
Ero accettato nel gruppo senza mai però riuscire a conquistare la fiducia\simpatia di tutti. A dispetto della loro apertura mentale, solo poche persone si sono realmente interessate a me come persona, tralasciando così la mia temporanea condizione di coinquilinità insita nel mio anonimo arrivo. Una sera si sono incazzati in massa quando porto a casa un amico portoghese di Yan, incallito viaggiatore con maglia, pantalone e fisarmonica. ‘Gli ospiti non possono portare altri ospiti’, mi gridano in faccia. In effetti l’avevo cagata un po’ fuori dal vaso, confermando nuovamente l’antisociale diffidenza delle Okupa verso quel tipo di viandanti della vita, ad ogni maniera alieni all’idea di rubare colui che ti aiuta. Bah, infine non credo di aver ucciso nessuno...
Giusto ieri sono andato a trovare Clemon ed Enrique dopo un anno dalla nostra despedida e in dettaglio sono riusciti a delinearmi perfettamente i vari step da seguire per occupare una casa. 

1 adocchiare case o appartamento che sembrano vuoti
2 lasciare una busta o un pezzo di carta sotto la porta. Se dopo vari giorni ancora permane sotto la porta, significa che la casa è disabitata
3 Chiedere ai vicini di chi è la casa e cercare di contattare il padrone
4 Nel frattempo entrare abusivamente nella casa e aspettare l’inevitabile arrivo della polizia.
5a Nel caso si sia fatto un accordo con il padrone (per es. mantenere l’immobile pulito e ristrutturarlo), si può mandare a fanculo la polizia dicendogli: ‘Abbiamo un accordo verbale con il padrone’.
5b Ma, nel più probabile dei casi, in cui non si avrà avuto un contatto col padrone, la polizia intimerà di lasciare l’immobile. Gli occupanti in generale rifiutano di sloggiare alternando varie risposte come ‘Io ci vivo qua, studio, lavoro e guardo la tv’ o ‘Ho trovato la porta aperta’ o ‘Mi arrapano le case abbandonate’.
6 Lo sfratto o il processo possono durare dai due giorni ai dodici mesi, quindi non si è mai sicuri della longevità della permanenza. In caso di processo, il 99% dei casi si risolve con lo sfratto e assoluzione di reato, e quindi con la fedina penale pulita. Sono stati registrati casi in cui gli occupanti hanno avuto la fortuna di capitare in immobili non registrati nel catasto, quindi di pubblico usufrutto.

Fatto sta che in conclusione posso senza dubbio affermare che il mondo delle okupa è un sottomondo da un lato pieno di cultura, lavoro comunitario e autogestione e dall'altro trasbordante di sfaticati e fannulloni.

sábado, 11 de enero de 2014

Kapok e le Okupas (Parte 1)


- la mia modesta camera -
 

È passato quasi un mese dal mio peculiare arrivo nella città di Gaudì, solamente con uno zaino e una chitarra senza custodia, e molto (forse troppo) è cambiato da allora.
Ora sono al lavoro riarrangiando memorie sulle varie settimane passate ad adattare l'imporvvisazione verso l'inaspettato finale: ho trovato (volente?) stabilità dopo sette mesi di vagabondaggio.
I primi giorni mi rendo conto che la via Couchsurfing funziona poco a Barcellona, visto che l’estate è al pieno, molti sono in vacanza o sono stracolmi di amici. Quindi, dopo due case cambiate in due giorni, mi dirigo alla casa okupa consigliata da una coppia di giocolieri francesi conosciuti ad un semaforo di Avenida Meridiana mentre davano un veloce spettacolo di acrobazie circensi alle macchine in attesa del verde, guadagnando così più di qualche moneta ad ogni mini-show.
Con l’umidità che traspirava bastarda sulla mia schiena carica, arrivo alla fantomatica Calle Gloria in quel dell’Hospitalet del Llobregat. ‘Non so il numero civico, ma la riconoscerai’, mi dice il giocoliere francese, ‘sta in fondo alla via, vicino ai binari del treno’.
Un foglio di denuncia di intrusione di proprietà privata attaccato alla rude porta di ferro mi conferma di essere arrivato a destinazione. Effettivamente il treno passa fin troppo vicino all’edificio, e i piccoli terremoti che si creano con l’avvicinarsi del treno mi fanno temere per la precaria stabilità della fabbrica abbandonata.
Busso fortemente alla porta ma nessuno risponde. Cinque minuti e arriva un “inquilino” e mi fa: ‘Si?? Che vuoi?’.
Gli spiego la mia situazione chiedendogli se gentilmente mi avrebbero potuto ospitare giusto un paio di giorni, ‘il tempo di trovare un lavoro’, gli dissi.
Il fatto è che passarono ben tre settimane prima che mi muovessi dalla fabbrica abbandonata e, anche se dormivo su un materasso riciclato buttato per terra, fra cavi e metalli vari, devo dire che dopo qualche giorno quel piccolo spazio con finestra rotta e fischio del treno dentro il timpano potevo chiamarlo senza alcuna vergogna ‘casa’.
Già credo di aver scritto nel libro il significato di ‘casa’, e con questo viaggio improvvisato credo di aver compreso sempre più a fondo l’importanza di appropriarsi in ogni luogo straniero di qualsiasi familiare barlume del passato.
Il passato è il presente e a suo modo anche il futuro.
Non so se ha molto senso quello che sto scrivendo, fatto sta che la mia vita da clandestino fra i clandestini non era poi così cattiva infine. L’organizzazione era un po’ da criticare, ma questo lo si può rinfacciare a qualsiasi casa okupa, visto che l’elemento sociale fondante della comunità in questione è sempre e comunque l’uomo, il quale, nella sua funzione di animale sociale, non si rende capace di vivere in armonia col suo prossimo.
E quando il suo prossimo è composto da 15 persone, di varie razze, nazioni e religioni, tutte le buone intenzioni di antirazzismo e antifascismo vanno completamente a farsi fottere, come le puttane al centro di Barcelona.
Ho avuto tra l’altro la fortuna di assistere a una assemblea del lunedì, nella quale la comunità si riunisce per scambiare informazioni, presentare iniziative e risolvere problemi di comune interesse. Discutendo di cani e di pulci, a un certo punto la conversazione si infuoca, con voci alte e mani moleste. Di seguito le battute del dibattito:

Ragazza #1: - Tu mi hai chiamato tonta
Ragazza #2: - No, tu mi hai chiamato tonta prima.
Ragazza #1: - Non è vero!!
Ragazza #2: - Sì che è vero!!

Dalle facce dei miei vicini, pare che non sia permesso ridere, vista la serietà della questione… Ma un piccolo sorriso non me lo può togliere nessuno.
‘Grandi, grossi e fregnoni’, direbbe mio padre…