sábado, 11 de enero de 2014

Kapok e le Okupas (Parte 1)


- la mia modesta camera -
 

È passato quasi un mese dal mio peculiare arrivo nella città di Gaudì, solamente con uno zaino e una chitarra senza custodia, e molto (forse troppo) è cambiato da allora.
Ora sono al lavoro riarrangiando memorie sulle varie settimane passate ad adattare l'imporvvisazione verso l'inaspettato finale: ho trovato (volente?) stabilità dopo sette mesi di vagabondaggio.
I primi giorni mi rendo conto che la via Couchsurfing funziona poco a Barcellona, visto che l’estate è al pieno, molti sono in vacanza o sono stracolmi di amici. Quindi, dopo due case cambiate in due giorni, mi dirigo alla casa okupa consigliata da una coppia di giocolieri francesi conosciuti ad un semaforo di Avenida Meridiana mentre davano un veloce spettacolo di acrobazie circensi alle macchine in attesa del verde, guadagnando così più di qualche moneta ad ogni mini-show.
Con l’umidità che traspirava bastarda sulla mia schiena carica, arrivo alla fantomatica Calle Gloria in quel dell’Hospitalet del Llobregat. ‘Non so il numero civico, ma la riconoscerai’, mi dice il giocoliere francese, ‘sta in fondo alla via, vicino ai binari del treno’.
Un foglio di denuncia di intrusione di proprietà privata attaccato alla rude porta di ferro mi conferma di essere arrivato a destinazione. Effettivamente il treno passa fin troppo vicino all’edificio, e i piccoli terremoti che si creano con l’avvicinarsi del treno mi fanno temere per la precaria stabilità della fabbrica abbandonata.
Busso fortemente alla porta ma nessuno risponde. Cinque minuti e arriva un “inquilino” e mi fa: ‘Si?? Che vuoi?’.
Gli spiego la mia situazione chiedendogli se gentilmente mi avrebbero potuto ospitare giusto un paio di giorni, ‘il tempo di trovare un lavoro’, gli dissi.
Il fatto è che passarono ben tre settimane prima che mi muovessi dalla fabbrica abbandonata e, anche se dormivo su un materasso riciclato buttato per terra, fra cavi e metalli vari, devo dire che dopo qualche giorno quel piccolo spazio con finestra rotta e fischio del treno dentro il timpano potevo chiamarlo senza alcuna vergogna ‘casa’.
Già credo di aver scritto nel libro il significato di ‘casa’, e con questo viaggio improvvisato credo di aver compreso sempre più a fondo l’importanza di appropriarsi in ogni luogo straniero di qualsiasi familiare barlume del passato.
Il passato è il presente e a suo modo anche il futuro.
Non so se ha molto senso quello che sto scrivendo, fatto sta che la mia vita da clandestino fra i clandestini non era poi così cattiva infine. L’organizzazione era un po’ da criticare, ma questo lo si può rinfacciare a qualsiasi casa okupa, visto che l’elemento sociale fondante della comunità in questione è sempre e comunque l’uomo, il quale, nella sua funzione di animale sociale, non si rende capace di vivere in armonia col suo prossimo.
E quando il suo prossimo è composto da 15 persone, di varie razze, nazioni e religioni, tutte le buone intenzioni di antirazzismo e antifascismo vanno completamente a farsi fottere, come le puttane al centro di Barcelona.
Ho avuto tra l’altro la fortuna di assistere a una assemblea del lunedì, nella quale la comunità si riunisce per scambiare informazioni, presentare iniziative e risolvere problemi di comune interesse. Discutendo di cani e di pulci, a un certo punto la conversazione si infuoca, con voci alte e mani moleste. Di seguito le battute del dibattito:

Ragazza #1: - Tu mi hai chiamato tonta
Ragazza #2: - No, tu mi hai chiamato tonta prima.
Ragazza #1: - Non è vero!!
Ragazza #2: - Sì che è vero!!

Dalle facce dei miei vicini, pare che non sia permesso ridere, vista la serietà della questione… Ma un piccolo sorriso non me lo può togliere nessuno.
‘Grandi, grossi e fregnoni’, direbbe mio padre…

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