lunes, 13 de enero de 2014

Sei semplici passi da seguire per occupare una casa abbandonata

 
- Gente di okupa -


L'Hospitalet de Llobregat, Barcelona
Ultimi giorni di luglio



parte i conflitti interni e le ridicole risoluzioni future, la vita all’interno della Casa Okupa ‘anonima’ (erano passati quattro mesi e ancora non esisteva un nome per mancanza di un comune accordo) andava avanti dolce e leggera, chi danzando ritmi egizi, chi cucinando ricche pietanze riciclate e chi rollando l’ennesima canna. Si passano bei momenti con la buona gente che vive e passa per la fabbrica abbandonata, fornita di poche regole e tanta buona volontà.
 Si chiedono 7 euro la settimana per contribuire ai costi del pranzo e della cena, pasti “volontariamente” cucinati dal buon senso di ogni inquilino. Dei tre frigoriferi uno si riserva per i cibi privati, mentre gli altri sono interamente comuni, permettendo così ai meno abbienti di godere dei bendidio scartati dalla società, trovati nei cassonetti o gentilmente offerti da una frutteria che comunque li avrebbe buttati.
‘Riciclo’ è una parola fondamentale nell’etica Okupa, imperniata sulla filosofia dopoguerresca del nun se butta vie gniente. E così la cucina aveva ora una forma, le abitazioni (tranne la mia) rispecchiavano la visione capitalistica di camera da letto e il salone aveva tavoli, sedie e divani come qualsiasi salone da copertina Ikea. Tutto con gli scarti della gente che lavora.
E già, perché una buona maggioranza dei miei nuovi coinquilini non lavora nella maniera propriamente detta. Qualcuno si arrangia con i birilli, qualche altro con le percussioni e qualcuno prova con molta maestria e pochi alunni a impartire lezioni di danza. Altri invece, con la scusa del Ramadan, dormono il giorno e si sfondano di cibo e canne la notte.
Ero accettato nel gruppo senza mai però riuscire a conquistare la fiducia\simpatia di tutti. A dispetto della loro apertura mentale, solo poche persone si sono realmente interessate a me come persona, tralasciando così la mia temporanea condizione di coinquilinità insita nel mio anonimo arrivo. Una sera si sono incazzati in massa quando porto a casa un amico portoghese di Yan, incallito viaggiatore con maglia, pantalone e fisarmonica. ‘Gli ospiti non possono portare altri ospiti’, mi gridano in faccia. In effetti l’avevo cagata un po’ fuori dal vaso, confermando nuovamente l’antisociale diffidenza delle Okupa verso quel tipo di viandanti della vita, ad ogni maniera alieni all’idea di rubare colui che ti aiuta. Bah, infine non credo di aver ucciso nessuno...
Giusto ieri sono andato a trovare Clemon ed Enrique dopo un anno dalla nostra despedida e in dettaglio sono riusciti a delinearmi perfettamente i vari step da seguire per occupare una casa. 

1 adocchiare case o appartamento che sembrano vuoti
2 lasciare una busta o un pezzo di carta sotto la porta. Se dopo vari giorni ancora permane sotto la porta, significa che la casa è disabitata
3 Chiedere ai vicini di chi è la casa e cercare di contattare il padrone
4 Nel frattempo entrare abusivamente nella casa e aspettare l’inevitabile arrivo della polizia.
5a Nel caso si sia fatto un accordo con il padrone (per es. mantenere l’immobile pulito e ristrutturarlo), si può mandare a fanculo la polizia dicendogli: ‘Abbiamo un accordo verbale con il padrone’.
5b Ma, nel più probabile dei casi, in cui non si avrà avuto un contatto col padrone, la polizia intimerà di lasciare l’immobile. Gli occupanti in generale rifiutano di sloggiare alternando varie risposte come ‘Io ci vivo qua, studio, lavoro e guardo la tv’ o ‘Ho trovato la porta aperta’ o ‘Mi arrapano le case abbandonate’.
6 Lo sfratto o il processo possono durare dai due giorni ai dodici mesi, quindi non si è mai sicuri della longevità della permanenza. In caso di processo, il 99% dei casi si risolve con lo sfratto e assoluzione di reato, e quindi con la fedina penale pulita. Sono stati registrati casi in cui gli occupanti hanno avuto la fortuna di capitare in immobili non registrati nel catasto, quindi di pubblico usufrutto.

Fatto sta che in conclusione posso senza dubbio affermare che il mondo delle okupa è un sottomondo da un lato pieno di cultura, lavoro comunitario e autogestione e dall'altro trasbordante di sfaticati e fannulloni.

sábado, 11 de enero de 2014

Kapok e le Okupas (Parte 1)


- la mia modesta camera -
 

È passato quasi un mese dal mio peculiare arrivo nella città di Gaudì, solamente con uno zaino e una chitarra senza custodia, e molto (forse troppo) è cambiato da allora.
Ora sono al lavoro riarrangiando memorie sulle varie settimane passate ad adattare l'imporvvisazione verso l'inaspettato finale: ho trovato (volente?) stabilità dopo sette mesi di vagabondaggio.
I primi giorni mi rendo conto che la via Couchsurfing funziona poco a Barcellona, visto che l’estate è al pieno, molti sono in vacanza o sono stracolmi di amici. Quindi, dopo due case cambiate in due giorni, mi dirigo alla casa okupa consigliata da una coppia di giocolieri francesi conosciuti ad un semaforo di Avenida Meridiana mentre davano un veloce spettacolo di acrobazie circensi alle macchine in attesa del verde, guadagnando così più di qualche moneta ad ogni mini-show.
Con l’umidità che traspirava bastarda sulla mia schiena carica, arrivo alla fantomatica Calle Gloria in quel dell’Hospitalet del Llobregat. ‘Non so il numero civico, ma la riconoscerai’, mi dice il giocoliere francese, ‘sta in fondo alla via, vicino ai binari del treno’.
Un foglio di denuncia di intrusione di proprietà privata attaccato alla rude porta di ferro mi conferma di essere arrivato a destinazione. Effettivamente il treno passa fin troppo vicino all’edificio, e i piccoli terremoti che si creano con l’avvicinarsi del treno mi fanno temere per la precaria stabilità della fabbrica abbandonata.
Busso fortemente alla porta ma nessuno risponde. Cinque minuti e arriva un “inquilino” e mi fa: ‘Si?? Che vuoi?’.
Gli spiego la mia situazione chiedendogli se gentilmente mi avrebbero potuto ospitare giusto un paio di giorni, ‘il tempo di trovare un lavoro’, gli dissi.
Il fatto è che passarono ben tre settimane prima che mi muovessi dalla fabbrica abbandonata e, anche se dormivo su un materasso riciclato buttato per terra, fra cavi e metalli vari, devo dire che dopo qualche giorno quel piccolo spazio con finestra rotta e fischio del treno dentro il timpano potevo chiamarlo senza alcuna vergogna ‘casa’.
Già credo di aver scritto nel libro il significato di ‘casa’, e con questo viaggio improvvisato credo di aver compreso sempre più a fondo l’importanza di appropriarsi in ogni luogo straniero di qualsiasi familiare barlume del passato.
Il passato è il presente e a suo modo anche il futuro.
Non so se ha molto senso quello che sto scrivendo, fatto sta che la mia vita da clandestino fra i clandestini non era poi così cattiva infine. L’organizzazione era un po’ da criticare, ma questo lo si può rinfacciare a qualsiasi casa okupa, visto che l’elemento sociale fondante della comunità in questione è sempre e comunque l’uomo, il quale, nella sua funzione di animale sociale, non si rende capace di vivere in armonia col suo prossimo.
E quando il suo prossimo è composto da 15 persone, di varie razze, nazioni e religioni, tutte le buone intenzioni di antirazzismo e antifascismo vanno completamente a farsi fottere, come le puttane al centro di Barcelona.
Ho avuto tra l’altro la fortuna di assistere a una assemblea del lunedì, nella quale la comunità si riunisce per scambiare informazioni, presentare iniziative e risolvere problemi di comune interesse. Discutendo di cani e di pulci, a un certo punto la conversazione si infuoca, con voci alte e mani moleste. Di seguito le battute del dibattito:

Ragazza #1: - Tu mi hai chiamato tonta
Ragazza #2: - No, tu mi hai chiamato tonta prima.
Ragazza #1: - Non è vero!!
Ragazza #2: - Sì che è vero!!

Dalle facce dei miei vicini, pare che non sia permesso ridere, vista la serietà della questione… Ma un piccolo sorriso non me lo può togliere nessuno.
‘Grandi, grossi e fregnoni’, direbbe mio padre…

lunes, 28 de octubre de 2013

Algeciras: il sud diventa nord...

- Ci vedremo presto, caro Sud -


Algeciras, ultimi di giugno e pochi kilometri dall'Africa. Passano le ore, il sole se ne va e risorge.
Sono fuori del porto aspettando un passaggio verso nord-est, nel luogo in cui tutti dicono ci sia lavoro: l’antica città dei balocchi, Barcellona.
Sono quasi 1200 kilometri di cammino ma la speranza ancora si cela ambigua dietro la stanca espressione di dolore e rassegnazione disegnata sul mio volto. Molti confessano che pare abbastanza facile fermare qualche famiglia araba che salga verso nord (Francia o Belgio le destinazioni piú classiche dei marocchini), ma dopo molte ore di inutile attesa, mi riprometto di non stare piú a sentire le voci e cominciare a fare di testa mia una volta per tutte.
Ormai i camionisti e quelli del porto mi conoscevano e qualche chiacchierata di tanto in tanto ce la facevo per non perdere la sanità mentale.
L’enorme parcheggio di camion l’avevo spolverato da cima a fondo, chiedendo in qualsiasi lingua un passaggio che mi potesse far uscire da Algeciras. ‘Se vieni a Tanger, ti portiamo’.
Maledetta voglia di garrapateare il Marocco, fermati!
Più di una volta rifiuto e alla terza canta il gallo.
Le prime luci dell’alba si stendono labili sull’infranta idea di andare a Salamanca (un camionista mi aveva promesso di portarmici il giorno che veniva, ma non riuscì a trovarlo di nuovo in quell’enorme parcheggio) e il corpo riposato si sveglia nella sala d’attesa del porto, pronto ad un altro giorno a sventolare il cartello con su scritto ‘Madrid, Barcelona, norte’
Nel piccolo centro storico un matto continua a dare ripetutamente capocciate ad un palo, mentre la gente passa indifferente davanti alla surreale scenetta dello zimbello del villaggio, assurdità replicata fino al livello estremo di sopportazione.

Nelle innumerevoli ore passate ad evitare il sole senza risultati concreti, ho avuto la possibilità, ancora una volta, di volgere la tragicità della mia situazione in uno studio sociologico focalizzando sulla visione della mia immagine per le varie persone incontrate nel cammino. Ognune di queste si è sentita in dovere di aiutarmi, chi più con parole, chi più con fatti…

- Aiuto n.1: Passa un'araba e fa in tono mammesco: 'C'è troppo sole, copriti la testa, pazzo!'
- Aiuto n.2: Passa la polizia e fa feroce: 'Vai dietro la linea se non vuoi che ti schiacci un camion'.
- Aiuto n.3: Passa un'americana e mi da una barretta energetica. 'Made in Denver'
- Aiuto n.4: Si avvicina un prete a curiosare sul mio destino. 'Ma non hai soldi per prendere un bus?', fa. E senza sentire la risposta chiede: 'Sei cattolico o musulmano?'. Suscitai la sua ira quando risposi con un 'pfff', visto che del suo intenzionale aiuto ecclesiastico mi ci potevo benissimo pulire il mio sporco culo. 'Vuoi una Bibbia?', mi fa.
- Aiuto n.5: Una simpatica coppia che mi aveva portato in autostop fino ad Algeciras mi aveva gentilmente offerto 20 euro, come fossi loro figlio. Dopo 36 ore di attesa, decisi di utilizzarli per arrivare a Madrid, e da lì autostop fino a Barcelona.

Qualche raya di cocaina e numerosi porros hanno aiutato i miei ultimi salvatori a portarmi sano e salvo nella stazione di servizio sull’autostrada più vicina alla capitale catalana.
Castellbisbal, di nuovo ci incontriamo…

Morale della favoletta: Le autoritá (esempio 2 e 4) sono indubbiamente fini a sè stesse, visto che non aiutano gli altri, impegnate come sono ad assistere l’auto-sostentamento del proprio essere-in-quanto-contraddizione.
Piú la gente si sradicherá dalle istituzioni, piú tornerá il sentimento di umanitá proprio all'Homo Sapiens (es. 1, 3 e 5)

viernes, 18 de octubre de 2013

Malaga. Tanta cumbia e poco Picasso


- Malaga es Sudaka -

Malaga, fine giugno

La speranza ‘Malaga’ si era trasformata in un’altra scusa di cazzeggio, stavolta stile Erasmus. Ero finito nel giro di studenti d’oltreoceano del Cono Sur (Cile, Argentina e Uruguay) e mi sentivo a casa, il vecchio domicilio ‘Sud America’ che stavo tentando invano di ricordare col mio inchiostro scaduto.
Ero magicamente tornato tra i boludos e i weones di laggiù, festeggiando non si sa cosa fino all’alba e suonando cumbia per tutte le strade della città di Picasso.
Malaga non è un granché, a dir la verità. Tutta la provincia (Marbella, Torremolinos, Benalmadena) è governata da varie mafie di sviluppo edilizio, che hanno trasformato ormai il primo Mediterraneo in una S.p.a. fatta di hotel, resorts e lounge club d’elite.
E infatti proprio una russa mi prende da Algeciras direzione Malaga e, a dispetto dei forti problemi di comunicazione, riesce ad avvicinarmi di molti kilometri alla meta.
‘Devo entrare in un paesino per fare una cosa’, mi fa a gesti.
Entra quindi nell’enorme zona residenziale a lato dell’autostrada. Tutto è pulito e perfetto, una donna delle pulizie torna triste e scura a casa, mentre padroni (ancora più bianchi del solito) passeggiavano le loro future generazioni come fossero cani di razza.
Tutto era perfetto... si sorseggiava l’aria delle stradine apocalittiche di The Truman Show.
Qualcuno mi confermò le teorie non troppo avventate che avevo preso in quei pochi minuti di attesa: la mafia russa controlla la costa malaghina.
Sarà per questo (o forse no) che non incontrai lavoro a Malaga, scoraggiato dalla “crisi” e dalla terribile stagione. Così in un lampo di follia decisi di andare a Barcellona, ultima spiaggia, dalla quale eventualmente potevo salpare per la mia cara patria Sardegna.
E, almeno in un aspetto devo dire che forse commisi un grande errore: tornai sui miei passi con la speranza fondata che in Algeciras qualche famiglia marocchina mi avrebbe portato su 1200 kilometri fino al confine con la Francia.
Il mio addio a Malaga fu con il sole a zenit e una Ford Fiesta, guidata da un uomo con trent'anni e molte lamentele: “Ho quattro figli e sono disoccupato da 2 anni. Lo stato mi dà 400 euro al mese, ma che cazzo ci faccio, dimmelo tu pisha!”
Beh io con 400 euro al mese vivevo da re a Valencia, ma sicuramente non avevo quattro bocche da sfamare.

Ora a malapena potevo sfamare la mia.

sábado, 28 de septiembre de 2013

Kapok barbone! (come diceva il Celli)



- Yan -

    E proprio in quel di Tarifa, appare per strada Yan, il vagabondo tedesco incontrato in quel di La Linea, un’apparizione dietro un angolo.
‘O ciao, come va? Non ho casa’
‘Neanch’io’
Perfetto.
Vivere un giorno per strada è come vivere una settimana con domicilio. Modestamente posso vantarmi di essere stato quasi un mese per strada secondo questo strano calcolo, lottando per la sopravvivenza e sopravvivendo per la lotta.

La vita da vagabondo full-time si rivelò i primi giorni meno difficile del previsto, diviso com’ero fra l’aggiustare il budget con qualche canzone suonata per strada e l’inevitabile socializzare con altri “artisti” callejeros.
Qualche uomo ben piazzato mi offre una birra, credendo che il mio Bob Dylan fosse un Cat Stevens, interessandosi parzialmente alla mia storia, mentre altri mi vedevano solamente come un altro fottuto barbone trottamondo. Non avevo più rumbo, è vero: aspettavo una non so che manna del cielo che mai sarebbe venuta a bussarmi alla porta, ma la speranza si era presa una lunga vacanza, lasciando il destino solo e in cassa integrazione...

Perlomeno la gente di Tarifa non è fredda e noiosa come il vento che perennemente soffia nei vicoli del suo accogliente centro storico. Il nostro pranzo è mezzo chilo di gelato alla panna del discount, aiutati da un solo cucchiaino strautilizzato. In questo frangente si affaccia una signora da una finestra, offrendoci un piatto di paella. 'Mi avanza', mente.
Una maniera criptata per dirle che le facevamo pena.
Ma si accetta. Quando si tratta di mangiare, ci si riempie lo stomaco a forza sfruttando così tutti i momenti in cui si apre una proficua possibilità di sostentamento fisico.
E non ci sono regole. Quando capita, capita.
Ti vedi il portafoglio, conti e non arrivi mai alla decina. Giro l’angolo e con tutta la calma del mondo vedo Yan che si prende una pizza d’esposizione, una di quelle che mettono fuori il ristorante per attrarre i clienti.
‘L’avrebbero buttata comunque’, mi fa offrendomi la mia buona metà.

Suono Eddie Vedder per il lungomare ed una tipa italiana si avvicina e fa: ‘Anch’io la so suonare’.
Lei, col suo presunto ragazzo, stava senza rumbo, suonando per strada e vivendo del raccolto, come d’altronde stavamo facendo noi due. Lei era veramente simpatica, interessante e interessata. Perlomeno passammo la serata insieme tutti e quattro, tra una birretta e un porrito, tra una canzone e una chiacchierata.
Poca consolazione, visto che il destino l’avevano chiamato per la leva militare e presto sarebbe dovuto partire per l’imminente guerra.
Ed io con lui.

- San Juan, notte del 23 giugno -

Il vento continuava a sferzare violento avvicinando l'apoteosi piromana di San Juan, la mitica notte dei fuochi artificiali e dei falò in spiaggia: il nostro Ferragosto in due parole.

E siamo di nuovo io e Yan, (Bob Dylan e Muddy Waters) con un vino, un fuoco e due chitarre. Il crucco bestemmia quando la mista vola al vento, invocando chissà quale demonio della mala sorte complice di tale atrocità.
Suono i Delinquentes e magicamente si avvicina gente, chi cantanti di professione, chi skater internazionali e chi giovani fannulloni. E noi sfruttando la notte, il fuoco e l’alcol gratis.
Se penso al San Juan del 2012 posso concludere senza dubbio che non c’è assolutamente alcun paragone fra quello passato a Tarifa e quello passato a Valencia: in quest'ultima città infatti il delirio è maggiore e il vento quasi assente non riesce a sparpagliare i pensieri reconditi. 
Mi stava seriamente molestando questo forte incremento voluto da Eolo e, quando mi dissero che Tarifa vanta il primato nazionale di Tarifa in quanto a suicidi, non mi sorpresi nel notare un nero malestare flotare invisibile nell’aria come fumo radioattivo.
Ma forse era il nostro malestare a flotare, a dir la verità, la necessità di un cambio che ci strillava nell'orecchio torcendoci le budella dal dolore.
La polizia ci trovò a mattinata inoltrata accartocciati intorno a un falò morente, obbligandoci a sloggiare dalla spiaggia come due profughi affumicati.
E quello eravamo infine. Stavamo male, non potevamo dormire e il vento a volte ci faceva cadere per terra, deboli noi e forte lui.

Vaffanculo, me ne vado.
Io da una parte e Yan dall’altra.
‘Puoi fare tanti soldi per strada ‘che sai un fracco di canzoni’, mi fa col sorriso. Infine aveva realizzato un sogno quella notte: qualcuno aveva ballato al suo rock ‘n’ roll.
‘Ora posso cominciare a prendere il cammino per casa’, mi fa. 'In un paio di mesi chissà arriverò'.
Gli consiglio di passare per Vejer, tanti turisti e lavoro facile per le sue quattro canzoni blues. Prometto di andare a trovarlo a Berlino e lo lascio così alla stazione dei bus, insieme ad un vecchio barbuto inglese con un flauto ed una grande valigia vuota.

Io mi dirigo invece per la carretera direzione Malaga, ultima speranza dell’Andalucia.
L’ultima speranza in un pollice.

lunes, 23 de septiembre de 2013

Casa abbandonata con vista Africa




L’ultima città dell’Europa. La città dei venti, dei traghetti e dei nuovi continenti.
Il Sud in sé e per sé.
Dall’alto della mia tenda si staglia l’Africa illuminata, una nuova vita così vicina eppure così lontana.
L’arrivo a Tarifa è stato piuttosto burrascoso. Non tanto per l’autostop, quello funziona sempre molto bene qui in Andalucia. Il problema da affrontare era il fatto che di nuovo non avevo casa, lasciandomi così obbligato a improvvisare qualche metodo per liberarmi di zaino e chitarra.
Almeno per il giorno…
Al bar Coyote incontro Roberto, un gioviale torinese alle prese con la sua nuova attività. Chiedo se per caso gli serve un cameriere e mi mostra una ragazza che sta in prova.
Passa i Creedence sull’impianto stereo e già mi sale di vari punti. Gli affido zaino e chitarra per il giorno, spiegandogli un po’ la situation.
Mi intrinseco per le viuzze della splendida cittadina, piena di ristoranti, pub e negozietti familiari. Tutti si lamentano della bassa stagione e molti dei miei CV saranno sicuramente serviti a divertire qualche fallito ingegnere aerospaziale nel suo patetico tentativo di simulare un oggetto volante fatto di cellulosa e vane speranze.
Una tedesca con lunghi rasta biondi si interessa al mio destino e mi dice di chiamarla nel suo giorno libero. Ma non parla spagnolo e non può offrirmi casa.
Già, il problema casa.
Chiedo a dei tipi un po’ zozzi un luogo dove riposare le mie stanche membre e mi indicano una costruzione abbandonata in una spiaggia un po’ fuori mano. È uno spettacolo!
Metto la tenda nel patio per la notte, illuminato dai bagliori offuscati del porto di Tanger a riscaldarmi il cuore e lo spirito.
Così lontani i tempi in cui avevo una casa.
Così lontani i tempi in cui avevo un casa per più di tre giorni.

Il secondo giorno, dopo una quindicina di kilometri di camminata sulla spiaggia per lasciare CV a chiringuitos e campeggi, Roberto mi offre la sua casa, assicurandosi che non avessi tendenze sessuali etero-contrarie.
Si era fatto molto più affabile, mi offre pizza e birra raccontandomi un po’ della sua vita, del mitico bar a Torino, dove entrava la gente più disparata, dallo spacciatore di eroina di Agnelli ai giovani Subsonica. Conosce e ama tutta la scena musicale dei murazzi torinesi, condivide leggende e storie personali, accompagnate dal suo amico occhialuto “terrone settentrionale”, per dirla alla De Gregori.
A casa offre del cioccolato e da lì partono le storie del Gran Toro, della sua vita libera e di una finale stabilità, “ora a 42 anni”.
“Le cose vanno, ma il Toro non ti tradisce mai”
Cose che non posso capire, cose alla Liga, cose fin troppo meta calcistiche per le mie povere pagine virtuali.

e poi il romanticismo delle strade di Tarifa un giorno lo prostituì per un piatto di pasta e una doccia.
Eh sì, perché le speranze a Tarifa erano ormai andate, insieme a tutti i curriculum dati col sorriso a impiegati spesso molto scortesi. E così, tornai indietro sui miei passi e ripresi la nazionale direzione Vejer, uno dei paesini più caratteristici della Spagna meridionale.
Lì c’era infatti una bizzarra coppia ad ospitarmi per un paio di giorni di relax. Si rivelarono pacatamente sociali nella loro costante lotta di adattare le loro distinte vite al passo del candido paesino montano.
Lui, separato con due figli a carico, mostra molta eccitazione per la sua nuova vita, recriminando però continuamnte i molti anni perduti sotto il controllo pesante della moglie. Un sottone redento che un giorno incontra una polacca facendo autostop.
Da lì scatta l’amore, o qualunque cosa sia.
Lei, una scrittrice di sceneggiature cinematografiche, è completamente diversa dal suo amante: una libera viaggiatrice intellettuale. Tre fattori che piano piano si stanno impossessando di Jesus. O che Jesus cerca disperatamente di possedere per compiacere la sua dolce metà.
Non so cosa stessi facendo lì in realtà. Avevo la scusa di lasciare CV a Zahara de los Atunes, però la voglia e la speranza stavano piano piano scavando una grande fossa di disillusione, nella quale stavo lentamente cadendo.
Dopo qualche giorno tornai a Tarifa per San Juan, senza alcun piano e senza alcuna casa.
De prisa de prisa a rumbo perdido

martes, 17 de septiembre de 2013

Gibilterra. Fra bertucce e vagabondi



- Gibraltar -
         
      
           Gibilterra, metà giugno

 La pista di un aeroporto e una cabina telefonica rossa.
Così si presenta Gibilterra, un paese-nazione protetto da una grande rocca, casa delle prolifere quanto moleste scimmie semi-selvagge della specie Macaca sylvanus. Si dice che tale “nazione” rimarrà sotto il controllo del Regno Unito fino a quando tali bertucce permarranno a vigilare il territorio.
L’avessi saputo prima, le avrei sterminate.
Gibilterra, a livello di territorio, non fa assolutamente parte del Regno Unito: 35 caldi gradi infiltrati nelle vie paradossalmente britanniche, zeppe di turisti della madre patria a petto nudo. Qualche andaluzo sorseggia birra in un classico pub d’oltremanica mentre le notizie mostrano la regina nel suo nuovo vestito da milioni di pounds.
E, a proposito di soldi, i prezzi sono alle stelle (si paga in sterline), e per comprare da mangiare tutti vanno in Spagna, passando periodicamente la ridicola dogana. Dall’altra parte si presenta cruda La linea de la Concepciòn, una insolita residenza per molti italiani e altrettanti stranieri.
Non è in realtà niente di particolare il paesino in questione: qualche lunga spiaggia, qualche bar e molti arabi per strada. Mi ricorda in molte parti Ladispoli, dove il destino promedio di chi non finisce la scuola è quello di diventare parrucchiera (lei) e spacciatore (lui).
La versione nostrana di cheerleader e quarterback…
Ma anche tanti greci, polacchi, russi e tedeschi popolano la cittadina, visto che a Gibilterra si guadagna bene e, di conseguenza, la maggior parte si prende una stanza a La Linea, dove  gli affitti risultano decisamente meno cari. Il settore delle scommesse sportive è il lavoro più richiesto e ben retribuito, mi dice Michele, un simpatico umbro incontrato in piazzetta, che mi confessa che in realtà tutti lavorano lì: ‘8 ore davanti al computer, rispondere 4-5 mail al giorno, vederti una marea di film e 1700 euri a fine mese’.
Un lavoro che solo un italiano può compiere bene fino a fondo…
E sarebbe stata veramente un’uscita facile dal problema “occupazione”, che tuttavia mi assillava. Un tale Barry mi offre la sua casa con tanto di piscina al 17° piano, e, con poche speranze, continuo imperterrito a lasciare CV a destra e a manca, stavolta in versione bilingue.
Conosco anche un tedesco vagabondo: 37 anni, una chitarra e nessun portafoglio.
‘Faccio i miei 4-5 euri quotidiani suonando un paio di canzoni blues per strada. Poi me la godo, una birretta, un caffè e in spiaggia notte e giorno’
È rosso in faccia come tutti i tedeschi vergini e gli faccio i complimenti, per la rara scelta di prendere armi e bagagli e lasciarsi andare per la prima volta nella vita. Mi confessa infatti che quello era il suo primo viaggio.
E pare proprio che lo spirito continui a perseguitarmi, una vita che continua a seguirmi…

Ma sì, ho deciso di prendermi un po’ di pausa infine, troppo da dire e troppo da assimilare…
Il cammino un giorno si fermerà a fare una siesta, ed io con lui...